La comparsa del Covid-19 in territorio israelo-palestinese mette a nudo, in modo molto evidente, lo stato della condizione umana a quelle latitudini.
Il governo di Israele, in base a quanto stabilito dalla Quarta Convenzione di Ginevra – che definisce l’obbligo giuridico per la potenza occupante di garantire ogni misura preventiva a sua disposizione per combattere la diffusione di malattie contagiose ed epidemiche – è responsabile dello stato di salute della popolazione dei territori occupati, ove l’ANP (Autorità Nazionale Palestinese) ha una semplice funzione di gestione amministrativa. In sostanza ogni persona sottoposta all’autorità israeliana dovrebbe godere di pari accesso ai servizi sanitari e all’uguaglianza di trattamento. E’ così?
L’attuale sistema sanitario dei Territori Palestinesi Occupati (TPO) ha preso il via a partire dagli accordi di Oslo del 1994. E’ un sistema frazionato, sostenuto dal Ministero della Salute palestinese, da ONG varie, da enti privati e dall’UNRWA (commissione ONU per i rifugiati palestinesi), che subisce tutte le difficoltà legate alle varie possibilità d’accesso all’elettricità e all’acqua, agli ostacoli frapposti alla libera circolazione, agli effetti della militarizzazione e della colonizzazione. Questo contribuisce a spiegare il perché i palestinesi vivano in media 10 anni in meno rispetto agli israeliani, compresa la popolazione di coloni presente nello stesso territorio, oltre a registrare una mortalità materna e infantile da quattro a cinque volte superiore a quella degli israeliani.
A Gaza poi la situazione è peggiore rispetto alla Cisgiordania e non solo per il minor numero di letti in ospedale, di medici e di infermieri. Pesa il contesto politico. Il governo israeliano non permette infatti l’importazione di cemento per la ricostruzione degli edifici distrutti o danneggiati, compresi ovviamente gli ospedali, dalle incursioni aeree. Così come non permette l’importazione di attrezzature giudicate pericolose nelle mani di Hamas così come gli apparecchi radiologici o le batterie di supporto ai generatori, fondamentali durante le interruzioni di energia elettrica.
A Gaza vivono un milione e ottocentomila persone su un territorio di 141 miglia quadrate, uno dei posti con la più alta densità abitativa al mondo, controllato per terra, mare e aria dai militari israeliani. In questa situazione ci sono solo 20 dispositivi di ventilazione, c’è scarsità di acqua potabile e la dieta alimentare per molti lascia molto a desiderare.
Si assistono poi aberrazioni allucinanti come quella avvenuta nei TPO giovedì 26 scorso quando militari israeliani hanno proceduto allo smantellamento delle strutture necessarie per l’installazione di un ospedale da campo, insieme ad altri fabbricati che ospitavano sfrattati dalle loro abitazioni
(https://www.btselem.org/press_release/20200326_israel_confiscates_clinic_tents_during_coronavirus_crisis?fbclid=IwAR28ofiwxHRZoUV6hB85IyLa8PVsdmv19tCJu14ZyLf9SCcU_rRYnSnGr7Y). Ricordiamo a questo proposito che in base alla Legge fondamentale ‘Terre di Israele’ – che prevede che l’uso delle terre deve servire gli interessi nazionali – il governo ha il controllo non solo sul 93% del territorio demaniale entro i confini internazionalmente riconosciuti ma ha esteso la stessa legge sui TPO. Ciò vuol dire che grandi aree della Cisgiordania sono diventate ‘terre di Stato’, amministrate dalle leggi israeliane e chiuse all’uso dei palestinesi. Rientra in questa legge la restrizione sui permessi di costruzione e l’uso del suolo.
Se quindi paesi come l’Italia, con un sistema sanitario fino ad ieri considerato tra i migliori al mondo, si trovano a vivere in grande affanno l’epidemia in corso possiamo immaginare che risultati disastrosi avremmo se il Covid-19 si diffondesse su larga scala nei TPO e a Gaza.
Primi casi si sono registrati nella zona di Betlemme che è stata messa in totale isolamento insieme ai sobborghi di Beit Sahour e Beit Jala. Anche qui divieto di uscire di casa e multe per i trasgressori fino ad un equivalente di 1300 euro. Altri casi si sono avuti a Gaza.
La decisione dell’isolamento è stata presa dal Ministro della difesa israeliano, con il via libero dell’ANP. Una disposizione che evidenzia tutta l’ipocrisia che anima i governanti israeliani. Da una parte infatti esiste l’obbligo di garantire un certo livello di salute alla popolazione palestinese, dall’altra c’è l’esigenza di assicurare un continuo rifornimento di manodopera all’economia israeliana. In periodo normale sono centomila i lavoratori che dai TPO, con permesso o senza permesso, raggiungono Israele e gli insediamenti coloniali in Cisgiordania, per assicurare profitti alle aziende israeliane. In questa fase, ove il contagio cresce velocemente, il governo di Tel Aviv da una parte adotta misure sempre più severe, simili a quelle che già conosciamo, e dall’altra, a fronte di un’economia in caduta libera, vuole assicurarsi la presenza di una parte del proletariato arabo per continuare l’attività in settori portanti come l’edilizia.
Così ha imposto ai lavoratori palestinesi una scelta che ha tutta la dimensione di un ricatto: non potranno più fare i pendolari ma dovranno risiedere in Israele, separati dalle loro famiglie a tempo indeterminato, alloggiati a piacere dei loro datori di lavoro, sottoposti alla stessa legge militare che governa i territori ove vivono, alla pari di tutti coloro che sono sottoposti al regime differenziale di cittadinanza. Pare che in trentamila abbiamo accettato, nonostante il parere negativo dell’ANP, coscienti del rischio di contagio ma costretti dalla necessità di assicurare un reddito alle loro famiglie. Occorre infatti tener presente che il lavoro palestinese in Israele pesa per il 14% sul prodotto interno lordo dei TPO e rende enormemente al sistema economico israeliano che sfrutta questa massa di manodopera a basso costo, senza diritti, senza protezione sindacale, discriminata e frazionata secondo i vari regimi giuridici alla quale è sottoposta. Ed è proprio questa loro condizione che spiega meglio l’atteggiamento del governo israeliano nei confronti dei TPO.
Come si sa i TPO sono stati suddivisi in quattro aree in base agli accordi di Oslo tra lo Stato d’Israele e l’OLP (l’Organizzazione per la liberazione della Palestina) rappresentato dal presidente Arafat. L’area A comprende le città palestinesi e alcune zone rurali a nord, tra Jenin e Nablus, a sud, vicino a Hebron, e a centro-sud, nei pressi di Salfit; è un’area sotto controllo e amministrazione dell’ANP e rappresenta il 17% dei TPO con il 55% dei palestinesi residenti in Cisgiordania. Si sottolinea il fatto che quando si dice controllo e amministrazione dell’ANP non vuol dire suo governo esclusivo in quanto permane lo stato di occupazione militare israeliana; il che vuol dire che se l’esercito israeliano vuole arrestare qualcuno in questa zona avvisa la polizia palestinese che, quando non collabora, si ritira nelle sue caserme lasciando mano libera agli israeliani. Una seconda area, la B, comprende altre aree rurali al centro della Cisgiordania sotto il controllo di Israele e l’amministrazione dell’ANP: rappresenta il 24% dei TPO con il 41% della popolazione araba. Queste due aree, la A e la B sono a loro volta divise in 227 sotto aree (199 delle quali con una superficie inferiore a due chilometri quadrati) separate le une dalle altre da territori compresi nell’area C. Questa area comprende gli insediamenti coloniali israeliani legali e illegali (complessivamente sono 640.000 i coloni residenti), le loro strade d’accesso, le zone cuscinetto (quelle vicino alle strade, agli insediamenti, le aree definite strategiche, di interesse militare, ecc.), quasi tutta la valle del Giordano (che è la parte più ricca di acqua e di risorse agricole della Cisgiordania) e il deserto del Negev; è un area che comprende il 59% dei TPO con il 4% dei palestinesi, inframezzata da check point e da 700 chilometri di muri e barriere alte fino a 12 metri che spezzano comunità e territori, favorendo colonizzazioni e annessioni.
Oltre a queste 4 aree c’è poi la condizione di Gerusalemme Est e la situazione dei profughi. Un’insieme di regimi giuridici diversi vengono infatti utilizzati per subordinare, frammentare, annichilire ogni tentativo di ricostruzione della comunità palestinese. Bisogna infatti tenere presente che se si parla di numeri i cittadini d’Israele di tradizione e/o religione e/o cultura ebraica sono sei milioni e mezzo, quelli arabi con cittadinanza israeliana 1 milione e settecentomila, i palestinesi residenti a Gerusalemme Est trecentomila, quelli nei TPO due milioni e settecentomila e un milione e ottocentomila a Gaza. Facendo le somme si vede che la quantità di ebrei e di arabi distribuita tra Israele e TPO sostanzialmente si equivale. Ciò spiega il continuo tentativo del governo di Tel Aviv di ostacolare in tutti i modi possibili la ricongiunzione politica e sociale dei palestinesi.
Quattro sono i regimi giuridici nei quali quest’ultimi sono tenuti. Il primo comprende leggi che riducono la capacità degli arabi residenti in Israele di avere pari diritti: hanno infatti la cittadinanza ma non la nazionalità, questo fa si che si riduca il loro peso politico (oggi il fronte che raggruppa i vari partiti arabi, oltreché ebrei antisionisti, è diventato il terzo raggruppamento nel parlamento).
Il secondo restringe e condiziona il diritto di residenza per gli abitanti arabi di Gerusalemme Est.
Il terzo è comprensivo delle leggi militari che trattano i palestinesi dei TPO come popolazione straniera, priva di diritti politici, di libertà di stampa e di espressione. Il quarto impedisce ai profughi palestinesi di tornare nelle loro case. Tutto questo sistema è poi rafforzato dalle ultime decisioni in merito alla nazionalità che fa si che Israele sia lo Stato degli ebrei e che solo gli ebrei costituiscano la nazione. Mettere in discussione il regime esistente diventa allora un attacco alla nazione ed è quindi illegale.
In questo quadro si capisce meglio allora il piano Trump, presentato come una novità assoluta, osannato dai governanti di Israele, ma che non fa altro che riprendere il piano Drobles, ex membro del parlamento israeliano, datato 1979, il quale intendeva rendere esecutivo il piano dell’espansione degli insediamenti coloniali nei TPO voluto da Ariel Sharon allora ministro dell’agricoltura.
Un’espansione durata 40 anni che ha portato 640.000 coloni israeliani, sostenuti e foraggiati di tutto punto, nelle aree chiave della Cisgiordania. I due piani concordano sul fatto che deve esistere un controllo permanente di Israele sulla Cisgiordania, con la valle del Giordano come barriera naturale contro una possibile invasione da Est. Già nel 1967 il piano Allon raccomandava l’annessione della valle del Giordano per separare Cisgiordania e regno di Giordania tramite una zona cuscinetto. Oggi questi piani arrivano a compimento con l’intera Gerusalemme capitale e i palestinesi ridotti in un sobborgo periferico, con l’annessione degli insediamenti, delle alture del Golan e della valle del Giordano, con il trasferimento forzato delle popolazioni arabe dai territori annessi.
Lo spezzettamento odierno della Cisgiordania, ridotta ad un arcipelago di isole palestinesi inframmezzate dagli innumerevoli insediamenti israeliani, dal reticolo delle loro strade e dei loro muri, è l’obiettivo finale di tale piano, con gli abitanti rinchiusi in ‘bantustan’, ridotti a manodopera a basso costo, di riserva, per le esigenze israeliane, amministrati da un élite corrotta al servizio di Tel Aviv.
Tutto questo nell’accondiscendenza internazionale, tra le finte e ipocrite proteste dell’Unione europea che mentre protesta formalmente contro gli insediamenti illegali finanzia le strutture israeliane che li favoriscono.
D’altronde Israele gode fama di essere una delle democrazie più innovative e avanzate del mondo’, così come più volte ha affermato, tra gli altri, Gianni Vernetti – sottosegretario agli affari esteri del governo Prodi – sulle colonne de ‘La Stampa’.
Uno Stato senza confini (infatti non li ha mai definiti per tenersi le mani libere a Est), con una legge di parte – la Legge Nazione – assunta a ‘costituzione’ e che ha posto le basi per un vero e proprio regime di separazione etnica, senza alcun rispetto del diritto internazionale così come esplicitato da decine di risoluzioni ONU, che impone la sua legge e la sua valuta grazie alla forza militare, che sequestra l’80% dell’acqua dei TPO vendendo il restante 20% agli occupati, cui spetterebbe la proprietà, una ‘democrazia’ che come quella dell’antica Grecia vale solo per una parte dei suoi abitanti, può essere definita come tra le più ‘avanzate’ del mondo?
Con un apparato militare tra i più avanzati al mondo, forte dell’armamento nucleare, con un hi tech ben sviluppato messo a disposizione di tutti gli alleati bisognosi di sistemi sofisticati di controllo tecnologico e digitale, circondato da paesi di fatto satelliti (Egitto e Giordania), o stretti da alleanze di scopo (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, ecc.) come quella contro l’Iran, con una Siria ridotta al lumicino e un Libano alle prese con le sue lacerazioni interne, Israele avrebbe dovuto sentirsi sufficientemente al sicuro per portare a soluzione la questione palestinese nei termini di un equo trattato di pace.
La realtà è che non se lo può permettere in quanto la sua economia rimane una economia d’occupazione che si basa sul suo stato di mobilitazione perenne nei confronti del nemico e sulle pratiche di controllo e di sfruttamento nei confronti di palestinesi, ovunque essi si trovino, a Gerusalemme, a Gaza, nei TPO. Intanto crescono le difficoltà per continuare a sostenere la narrazione della ‘legittimità’ israeliana a occupare i territori per difendersi dall’estremismo palestinese, ridotto ormai a piccoli gruppi privi di un significativo sostegno internazionale, tanto da sostenere una campagna internazionale tesa a parificare strumentalmente l’antisionismo all’antisemitismo, con lo scopo di tacitare tutti i critici delle politica israeliana.
Da parte nostra non c’è alcun dubbio in materia, schierati sul fronte antirazzista e antifascista, siamo sempre stati contro ogni forma di discriminazione etnica e religiosa. Realtà come ‘Anarchici contro il muro, ‘B’Tselem’, ‘Parent’s Circle’, ‘Other Israel’, costituite e sostenute da israeliani e arabi, impegnati nel superamento delle barriere e nella realizzazione di una realtà sociale e politica basata sul riconoscimento dei diritti di tutti e di un sistema costruito su una giustizia eguale per tutti, sono un riferimento indifferibile, così come realtà come i ‘refusnik’ (gli obiettori al servizio militare), ‘Breaking the silence’ (ex militari contro l’occupazione), la statunitense ‘Jewish Voice for Peace’, la rete ‘Ebrei contro l’occupazione’. Antisemite sono sempre state le organizzazioni della destra fascista che oggi sostengono strumentalmente le politiche di Binyamin Netanyahu in funzione antiislamica, ma che nei loro territori incrementano le forme di razzismo presenti nei confronti di immigrati e rom e che inevitabilmente si rivolgono anche contro gli ebrei.
Concludo con una citazione tratta da una lettera di Jonathan Pollak di ‘Anarchici contro il muro’, scritta mentre si trovava in una prigione israeliana per aver aderito alle proteste palestinesi in Cisgiordania contro il dominio coloniale israeliano: “Di fronte al tremendo spostamento a destra nella politica israeliana, i resti della sinistra sionista – una volta gruppo dominante – si consumano lamentando il declino della democrazia israeliana. Ma quale democrazia vogliono difendere? Quella che ha espropriato i suoi cittadini palestinesi delle loro terre e dei loro diritti? Quella che, nella migliore delle ipotesi, considera questi palestinesi cittadini di seconda classe? Forse è la democrazia che governa la striscia di Gaza attraverso un feroce assedio mentre regna come una dittatura militare in Cisgiordania? Nonostante l’ovvia natura del regime, i liberali israeliani non sono disposti a contestare le premesse fondamentali del regime e riconoscere che lo Stato di Israele semplicemente non è una democrazia. Non lo è mai stata. (…)
Una ribellione aperta contro il regime è in atto da decenni, attuata dal movimento di resistenza palestinese. Il prezzo pagato da coloro che vi sono coinvolti è immenso. I cittadini ebrei di Israele devono seguire le loro orme”.
Massimo Varengo